venerdì 19 dicembre 2008
Corte di Cassazione n° 10651/08 – viaggi “tutto compreso” – responsabilità del tour operetor – 24.04.08.
giovedì 27 novembre 2008
Cassazione Civile: nell'intervento adesivo autonomo si possono proporre domande
mercoledì 26 novembre 2008
OBBLIGAZIONI IN GENERE - PAGAMENTO AL CREDITORE APPARENTE - EFFICACIA LIBERATORIA
martedì 18 novembre 2008
Incompetenza degli A.T.O. a determinare le tariffe per il servizio di smaltimento rifiuti
Compito che invece spetta inderogabilmente ai Comuni ed in particolare ai Consigli Comunali.
Di seguito la sentenza:
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI CATANIA
LA SEZIONE 06 riunita con l'intervento dei Signori:
VERGA DOTT. VINCENZO Relatore
RAMPOLLO DOTT. FLAVIO Giudice
Reg. gen. N. 0000/08
Udienza del 30.09.2008 ore 09:00
Sentenza n. 805/6/2008
Pronunciata il 30.09.2008
Depositata in segreteria il 14.10.2008
MOTIVI DELLA DECISIONE
A giudizio di questa Commissione il ricorso deve essere accolto, fondato appalesandosi il principale motivo di opposizione, poiché esula certamente dalla competenza dell'ATO CT 3 " Simeto Ambiente S.p.a". il potere di determinare l'entità della tariffa per il servizio in questione.
Ed invero, ai sensi del surrichiamato art. 49 del D.Lgs. n. 22/'97, così come modificato dalla legge n. 488/'99, ... i costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualsiasi natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o soggette ad uso pubblico sono coperti dai Comuni mediante la istituzione di una tariffa... .composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio... e da una quota rapportata alla quantità dei rifiuti conferiti. La tariffa è determinata dagli enti locali, anche in relazione al piano finanziario degli interventi relativo al servizi.
Con tale previsione legislativa, com'è evidente, è stata attribuita ai Comuni una specifica funzione, indiscutibilmente di natura pubblicistica, che riguarda espressamente la determinazione della tariffa correlata all'espletamento di un servizio collettivo, funzione alla quale gli stessi, in difetto di una previsione normativa di rango pari a quella della fonte attributiva, non possono rinunziare mediante l'esercizio del potere di senza pregiudicare la legittimità del proprio operato e di ogni provvedimento consequenziale.
A conferma della giustezza di tale principio va richiamata la giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui il potere di delega, in quanto altera l'ordine delle competenze degli organi abilitati ad emettere atti con efficacia esterna stabilite con atto normativo primario o secondario, necessita di un supporto normativo di valore almeno pari a quello attributivo della competenza ordinaria, in quanto diversamente opinando si renderebbe arbitra l'Amministrazione di spostarla caso per caso, e senza alcuna previsione di limiti aggettivi e soggettivi, con l'effetto di privare l'amministrato delle garanzie che sono insite nelle attribuzioni di uno specifico organo. Nel caso in esame, ad avviso di questa Commissione, le delibere commissariali e consiliari sulle quali ATO CT 3 fonda la propria legittimazione ad istituire le tariffe per il servizio, determinandone l'entità, sono da considerarsi illegittime perché adottate in assenza di disposizione di legge che le autorizzassero e devono essere disapplicate a norma dell'art. 5 della legge 20-03-1865 n. 2248, ali. E, secondo cui il giudice è tenuto ad applicare gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi.
Tale convincimento trova conforto nell'impugnazione proposta dal Commissario dello Stato avverso l'art. 11, comma 1°, della legge regionale n. 17 del 2004, che esplicitamente assegnava alle Società d'Ambito la competenza a determinare la t.i.a., per il motivo che la disposizione adottata si poneva in contrasto con quanto previsto dall'art. 49, comma 8°, del D.Lgs. n. 22/'97 che assegna agli enti locali la competenza a determinare le tariffe relative al servizio in questione. A seguito di tale impugnazione, notisi, la legge regionale suddetta è stata pubblicata sulla G.U.R.S. n. 56 del 31-12-2004 senza la norma sopra menzionata, norma che, quindi, non è mai entrata in vigore.Non vale obiettare che, anche con sentenza recentemente emessa (n. 52 del 2008), il Tribunale Amministrativo Regionale, Sezione Staccata di Catania, ha riconosciuto la competenza delle Società d'Ambito a determinare la t.i.a.
Secondo tale sentenza in verità, era avvenuto un vero e proprio trasferimento di funzioni con relativo mutamento nella titolarità del potere, che dal Comune trasla, in via amministrativa, in capo all'Ente pubblico appositamente costituito. Il trasferimento di funzioni, a giudizio della Sezione staccata di Catania del T.A.R., era reso legittimo dall'art. 1 ter del D.L. 07-02-2003 n. 15 (convertito nella legge 08-04-2003 n.62), il quale, per fronteggiare la persistente eccezionale ed urgente necessità di superare l'emergenza ambientale, aveva espressamente confermato i vari decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri al riguardo emanati tra il 1999 ed il 2002, la nomina del Presidente della Regione siciliana a Commissario delegato ed i poteri e le competenze di cui all'O.M. 31 maggio 1999 n.2983 del Ministro dell'Interno delegato per il coordinamento della protezione civile, nonché le ordinanze di protezione civile ed i conseguenti provvedimenti emanati in regime commissariale, sul territorio nazionale, inerenti alle situazioni di emergenza ambientale e relativamente allo stato di inquinamento delle risorse idriche nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, speciali e speciali pericolosi, in materia di bonifica e risanamento ambientale dei suoli, delle falde e dei sedimenti inquinati, nonché in materia di tutela delle acque superficiali e sotterranee e dei cicli di depurazione.
E' stato rilevato nella sentenza che con l'O.M. n. 2983 del 31-05-1999, era stata conferita al Commissario Delegato, ai fini dell'esecuzione del mandato, la potestà di derogare, ove necessario, ad una serie di norme, in esse compreso l'art. 32 della legge 09-06-1990 n. 142, come recepito dalla legge della Regione siciliana 11-12-1991 n. 48, articolo riguardante le competenze dei Consigli comunali, tra le quali rientrava l'istituzione e l'ordinamento dei tributi e la disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi.
Ad avviso di questa Commissione, però, contrariamente a quanto affermato dal T.A.R., Sezione staccata di Catania, non può fondatamente ritenersi che con l'O.M. suddetta sia stata conferita al Commissario Delegato la potestà di derogare alla competenza dei Consigli comunali in materia di istituzione ed ordinamento dei tributi e di disciplina delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi, di cui all'art. 32 comma 1 lett. g) della legge sopra richiamata. L'art. 15 della suindicata Ordinanza Ministeriale, infatti, prevede che il Commissario delegato possa derogare ad una serie di norme ma nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico. E non è certamente conforme ai principi generati dell'Ordinamento che l'Ente comunale deleghi alle società d'ambito i suoi poteri relativi all'ordinamento dei tributi ed alla disciplina delle tariffe per la fruizione di beni e servizi.
Non può considerarsi decisiva, l'inclusione dell'art. 32 sopra citato nelle norme derogabili ai sensi dell'art. 15 dell'O.M. n. 2983 del 1999, oltre che per le considerazioni svolte, per il fatto che l'art. 32, oltre alla competenza dei Consigli comunali nella materia testé indicata, prevede quella degli stessi Consigli per tutta una serie di arti, per i quali nessun ostacolo normativo osta alla deroga. Tanto ciò è vero che l'art. 15 dell'Ordinanza sopra richiamata non prevede la facoltà di derogare all'ari. 49 del D.L.vo n. 22/'97, secondo il quale la tariffa per lo smaltimento dei rifiuti è determinata dagli enti locali.
Né vale richiamare, come fa in un certo qual modo il T. A.R. nella succitata sentenza, il D.L.vo 03-04-2006 n. 152 (Norme in materia ambientale), non applicabile nella specie perché non ancora in vigore. L'art. 238, comma 6°, del D.L.vo testé menzionato, infatti,prevede che, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della parte quarta del decreto medesimo, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro delle attività produttive, sentiti la Conferenza Stato regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, le rappresentanze qualificate degli interessi economici e sociali presenti nel Consiglio economico e sociale per le politiche ambientali e i soggetti interessati, avrebbe disciplinato con apposito regolamento i criteri generali sulla base dei quali vengono definite le componenti dei costi e viene determinata la tariffa. Secondo lo stesso articolo, la tariffa sarebbe stata determinata dalle Autorità d'ambito entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del regolamento suddetto (art. 238, comma 3) e fino all'emanazione del regolamento e fino al compimento degli adempimenti per l'applicazione della tariffa avrebbero continuato ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti.
Peraltro, la tesi accolta da questa Commissione trova riscontro nelle sentenze del Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione prima (v. le sentenze a 2290/'07e2995/'07).
Con tali sentenze, il Tribunale Amministrativo Regionale, difformemente da quanto deciso dalla sua Sezione staccata di Catania, ha statuito che, in attesa dell'entrata in vigore del D. Lgs. n. 152/2006, il potere di determinare la tariffa per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti spetta al Consiglio Comunale. A tale conclusione il Tribunale Amministrativo Regionale è pervenuto con le sentenze sopra richiamate considerando: che il legislatore, con l’art. 49 comma 8° del D.L.vo n. 22/'92, aveva espressamente previsto che la tariffa era determinata dagli Enti locali; che anche secondo il D.P.R. n. 158/'99 "l'Ente locale determina la tariffa" sulla base del piano finanziario; che alla contraria tesi non giovava il riferimento alle varie ordinanze emesse dal Presidente della Regione - Commissario Straordinario all'emergenza rifiuti; che, del resto, l'O.M. n. 2983 del 31-05-1999 non attribuiva al Commissario Straordinario il potere di apportare deroghe alla previsione normativa dell'art. 49 D. Lgs. n. 22/'97; che lo stesso piano di gestione per i rifiuti in Sicilia non risultava utile alla tesi contraria, prevedendo che "la tariffa è determinata dagli Enti locali ed applicata e riscossa dagli Enti gestori del servizio"; che il mantenimento del potere di determinazione della tariffa in capo all'ente comunale, così come previsto dall'ari 49 del D. Lgs. n. 22/'92, non costituiva ostacolo alla funzione organizzativa e gestoria dell’A.T.O.; che, ove fosse stato già legittimamente riconosciuto alla società di gestione il potere di fissare la tariffa, non si comprenderebbe il motivo per cui il legislatore regionale aveva attribuito, con l’art. 11, comma 1°, della Legge reg. n. 17 del 2004, alle Società d'ambito detto potere; che tale norma, comunque, era stata impugnata dal Commissario dello Stato per illegittimità costituzionale e non era stata, poi, pubblicata; che impropriamente era stata richiamata la novella legislativa di cui al D. Lgs. n. 152/'06, con la quale veniva attribuito alle Autorità d'Ambito, peraltro diverse dalle precedenti Società d'ambito, il potere di determinare la tariffa, perché non ancora in vigore.Le delibere commissariali e consiliari sulle quali TATO CT 3 fonda il suo operato, pertanto, non possono non essere dichiarate illegittime.
L'illegittimità delle ordinanze di cui si è detto, ovviamente, si estende alla fattura oggetto del presente giudizio, che pertanto deve essere annullata. Impregiudicato resta, ovviamente, il diritto dell'ATO CT 3 di richiedere in altra competente sede e sotto altro profilo, la determinazione e la liquidazione di un corrispettivo per il servizio prestato.
Per quanto concerne le spese processuali, ritiene la Commissione, avuto riguardo alla natura della controversia ed alle peculiarità delle questioni trattate, che ricorrano giusti motivi per compensarle integralmente tra le parti.
P. Q. M.
La Commissione accoglie il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Catania il 30.09.2008.
mercoledì 12 novembre 2008
Il danno esistenziale esiste? La posizione delle Sezioni Unite
Negli ultimi anni la figura del danno esistenziale ha scritto importanti momenti, oscillando tra terreni fertili ed aridi, tra favorevoli e contrari, convegni e libri, emozioni e paure.
In particolare, era dubbio cosa si dovesse intendere con la categoria danno esistenziale; altresì, non era chiaro se tale figura, anche laddove esistente, potesse essere cumulata con il danno biologico (inteso come lesione del diritto alla salute, ex art. 32 Cost.) e danno morale (inteso, tradizionalmente, come transitorio turbamento psicologico).
Finalmente, con una presa di posizione decisa, le Sezioni Unite hanno affermato che il danno non patrimoniale, ex art. 2059 c.c., non può essere suddiviso in diverse poste risarcitorie, ma va considerato essenzialmente come unicum.
La posizione delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite affrontano, ex professo, la problematica de qua.
Innanzitutto, l’art. 2059 c.c. va completato con gli elementi strutturali dell’art. 2043 c.c.
Poi, esistono ipotesi codificate di risarcimento del danno non patrimoniale in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 1. n. 117/199), danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; art 29, comma 9, 1. n. 675/1996; impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998; adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2 1. n. 89/2001; mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).
Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 ce, il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dagli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l'art. 2043 ce e l'art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall'art. 2059 ce, norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall'origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).
Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto[1]).
Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).
Al di fuori di tali casi, è posssibile ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale, ma solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata[2]. Pertanto, non possono essere risarcite tutte le lezioni alla persona ovvero tutti i pregiudizi non patrimoniali, ma soltanto quelli che realizzano un’ingiustizia costituzionalmente qualificata.
Vanno abbandonate le sottocategorie del danno esistenziale[3] e danno morale[4], perché bisogna solo verificare la lesione di diritti inviolabili della persona; inoltre, la lettura che l’interprete deve seguire è quella dell’art. 2059 c.c. con i diritti costituzionali inviolabili, che non vanno intesi come un numerus clausus: la tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana[5].
Il c.d. pregiudizio di tipo esistenziale è, quindi, risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.
La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza[6].
Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità[7] ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).
Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.
Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona[8], della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.
Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni.
Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 ce, secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.
L'individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell'area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale.
Anche nel danno non patrimoniale può confluire lo schema logico risarcitorio ex art. 1223 c.c., che la conseguenza che anche in questa materia bisognerà tenere presente sia la perdita subita, quanto la mancata utilità[9].
Per quanto riguarda la complicatissima tematica del danno tanatologico[10], inerente all’irrisarcibilità del danno da morte immediata, che ipotizzava un vulnus al sistema risarcitorio (perché si rischiava di lasciar priva di tutela giuridica la vittima dell’illecito sol perché non sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo tra lesione e morte, riducendo notevolmente le possibilità risarcitorie), arrivando alla soluzione paradossale ed incostituzionale per cui si puniva più gravemente la lesione aggravata dalla morte rispetto alla c.d. morte immediata e diretta, la Cassazione afferma che il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura. Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.
Riflessioni brevi a caldo
Le Sezioni Unite indicano la strada da seguire, in materia di danni alla persona; vi è, invero, una certa apertura in favore della persona umana e dei sui aspetti dinamico-relazionali, ma si procede ad una nuova sistemazione: si è passati dal danno esistenziale, come categoria, all’ingiustizia costituzionalmente qualificata.
Non vi è, necessariamente, una deminutio di tutela, ma una visione prospettica diversa: non vi è più una categoria, ma una serie di danni relativi a lesioni di diritti inviolabili della persona umana, da verificare e leggere di volta in volta, attraverso una lettura combinata dell’art. 2059 c.c. con la Groundnorm.
Se, diversamente, fosse stata accolta la prospettiva che voleva confermata la categoria del danno esistenziale si sarebbe corso il rischio, secondo la Corte, di portare l’art. 2059 c.c., che è a carattere tipico, nell’atipicità caratterizzante l’art. 2043 c.c.; id est, il danno esistenziale non poteva essere riconosciuto perché non tipico, in contrasto con la lettera dello stesso art. 2059 c.c.
Poiché l’art. 2059 c.c. è tipico, allora, può essere collegato colo con norme (come quelle della Costituzione) e non con la categoria del danno esistenziale, che non presentava i caratteri della tipicità.
La tutela, poi, si è estesa a favore del creditore danneggiato dall’inadempimento, perché potrà fruire anche del risarcimento del danno non patrimoniale, attraverso l’esaltazione dell’art. 1174 [11] c.c. (relativo al c.d. interesse non patrimoniale), senza dover agire in via aquiliana cumulata con l’azione contrattuale, perché bisogna garantire almeno il rimedio risarcitorio nei casi di lesione di diritti inviolabili della persona umana (diversamente, vi sarebbe un vulnus all’art. 24 Cost.); interessante anche l’applicazione dell’art. 1223[12] c.c. al danno non patrimoniale, con la conseguenza che dovrà essere risarcito non solo la perdita, ma anche il mancato guadagno: nell’ipotesi di danno biologico, ad esempio, non si dovrà tenere presente solo la perdita di una parte del corpo, ma anche le mancate utilità derivanti da tale perdita (rinunce forzate a stare con i figli, giocare con loro, oppure stare con la moglie, guidare, ecc.), purchè individuate a livello costituzionale, accogliendo pure tesi estensive, per merito della clausola generale dell’art. 2 Cost.
venerdì 7 novembre 2008
RISARCIMENTO DEL DANNO - DANNI FUTURI - POSTUMI PERMANENTI CONSEGUENTI A SINISTRO STRADALE - MINORE NON SVOLGENTE ATTIVITA' LAVORATIVA - LIQUIDAZIONE
La Terza Sezione civile, pronunciandosi in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, ha consolidato e perfezionato un principio, già introdotto da Sez. III, n. 23298 del 14.12.2004, riguardante il tema della commisurazione del danno derivante al minore non svolgente alcuna attività lavorativa. Al riguardo ha affermato che quando detto minore subisca, in conseguenza di un sinistro stradale, lesioni personali con postumi permanenti, incidenti sulla capacità lavorativa futura, il relativo danno da risarcire - consistente nel minor guadagno che il minore percepirà rispetto a quello che avrebbe percepito se la sua capacità lavorativa non fosse stata menomata - può esser determinato ex art. 1226 c.c. in base al tipo di attività che presumibilmente il minore eserciterà, secondo criteri probabilistici, tenendo conto degli studi intrapresi e delle inclinazioni manifestate dal minore stesso, nonchè della posizione economico-sociale della famiglia. Ove il giudice di merito non ritenga di avvalersi di tale prova presuntiva, può ricorrere, in via equitativa, al criterio del triplo della pensione sociale. La scelta tra l'una o l'altro, di merito, è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivata. Nella stessa pronuncia trovasi anche affermato, conformemente a rv. 600386, che l'assicuratore, a seguito della richiesta del danneggiato formulata ex art. 22 della legge n. 990 del 1969, è direttamente obbligato ad adempiere nei confronti del danneggiato medesimo il debito d'indennizzo derivante dal contratto di assicurazione e che, una volta scaduto il termine di sessanta giorni da detta norma previsto, egli è in mora verso il danneggiato, qualora sia stato posto nella condizione di determinarsi in ordine all' "an" ed al "quantum" della responsabilità dell’assicurato. In tal caso l'obbligazione verso il danneggiato dell'assicuratore può superare i limiti del massimale per colpevole ritardo (per "mala gestio" cosiddetta impropria) a titolo di responsabilità per l'inadempimento di un'obbligazione pecuniaria e, quindi, senza necessità di prova del danno, quanto agli interessi maturati sul massimale per il tempo della mora ed al saggio degli interessi legali, ed oltre questo livello in presenza di allegazione e prova (anche tramite presunzioni) di un danno maggiore.
PROCESSO CIVILE –INCAPACITA' A TESTIMONIARE
Il coniuge in comunione legale dei beni è incapace a testimoniare nelle cause aventi ad oggetto la domanda di pagamento per una prestazione d’opera non imprenditoriale, i cui proventi ricadono immediatamente in comunione (sentenza n. 10398), mentre non è incapace a testimoniare nelle cause aventi ad oggetto il pagamento di una prestazione di carattere imprenditoriale, perché i crediti derivanti dall’esercizio dell’impresa diventano comuni solo al momento dello scioglimento della comunione (sentenza n. 10744).
martedì 4 novembre 2008
Circolazione stradale
Trasporto contra legem su ciclomotore – Inoperatività della garanzia assicurativa
Inoperatività della garanzia assicurativa in caso di trasporto contra legem su ciclomotore non omologato per il trasporto di soggetti diversi dal conducente.
Si riportano di seguito due sentenze rese, rispettivamente, dalla Corte di Appello di Milano e dal Tribunale di Catania, in cui sono state accolte le eccezioni di inoperatività della garanzia sollevate dalle compagnie di assicurazioni convenute in giudizio.
Corte di Appello di Milano, sentenza n°1615/08.
La Corte nell’accogliere la doglianza della Compagnia di assicurazione appelante, coglie l’occasione per precisare che “la polizza stipulata dal proprietario del ciclomotore con la X Ass.ni s.p.a. non prevede copertura per il rischio di danni ai terzi trasportati ed è del tutto pacifico che per detto ciclomotore vigesse il divieto di trasporto di persone oltre al conducente. Ne deriva che non solo il rischio dei danni a terzi trasportati non risulta contrattualmente previsto, ma l’esistenza di un divieto direttamente posto dalla legge in ordine al trasporto di terzi su ciclomotori come quello in esame impedisce di ritenere che i danni riportati da soggetti che, in violazione di tale divieto, abbiano scientemente scelto di essere trasportati sul mezzo, possano essere ricompresi tra quelli risarcibili in forza della assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile. Detta assicurazione nel caso di ciclomotori non omologati per il trasporto di persone, sicuramente valida verso i terzi utenti della strada, incolpevolmente danneggiati dalla circolazione del mezzo, non si estende, a giudizio di questa Corte, ai terzi danneggiati trasportati sul ciclomotore che, accettando di salire sul mezzo in questione, abbiano posto in essere un comportamento contra legem. Non si vede, infatti, come si possa ritenere che il legislatore che all’art. 170 del D.Lgs. n. 285/92 ha ribadito il divieto per i ciclomotori di trasporto di terzi abbia, poi, nel prevedere all’art. 193 della medesima disposizione di legge l’obbligatorietà dell’assicurazione per la r.c.a. per i ciclomotori, inteso estendere la copertura di detta assicurazione anche ai danni dei trasportati sui ciclomotori dopo aver categoricamente vietato detto trasporto”. Ed ancora, prosegue la Corte “la mancanza di una previsione contrattuale o di legge di copertura del rischio per i danni ai trasportati su ciclomotore non omologato al trasporto di persone esclude di ritenere l’operatività dell’art. 18, 2° co. L. n. 990/69 che ovviamente presuppone l’esistenza della previsione (contrattuale o legale) di copertura del rischio trasportati, in questa sede esclusa”.
Tribunale di Catania, sez. V, sentenza del 25 giugno 2008, n°. 2911.
Pronunciandosi in senso analogo alla sentenza della Corte di Appello di Milano sopra riportata, il Tribunale di Catania, nel riformare la sentenza del Giudice di Pace (n. 1709/2005), afferma che, non essendo stata data prova alcuna che il contratto di assicurazione stipulato con la Compagnia di assicurazione prevedesse una copertura anche per i danni causati ad un eventuale terzo, illecitamente trasportato sul ciclomotore, e non potendo ritenersi tale copertura compresa fra le ipotesi di assicurazione obbligatoria R.C.A. di cui alla L. n. 990/69, “per l’ovvia ragione che quell’obbligo assicurativo non può essere previsto per una ipotesi di trasporto vietata dalla legge”, non può in alcun modo ritenersi operativa la garanzia assicurativa.
lunedì 20 ottobre 2008
Sinistri con lesione: niente rito del lavoro avanti al giudice di pace
Il Giudice di Pace di Reggio Calabria, dovendo giudicare una controversia relativa ad un incidente stradale con lesioni ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 102/2006, dichiara la propria incompetenza ritenendo che tale norma avesse attribuito la competenza per gli incidenti stradali con lesioni al Tribunale. Il Tribunale di Reggio Calabria, ove la causa è stata riassunta, a propria volta riteneva erronea la decisione del Giudice di Pace e sollevava, quindi, regolamento di competenza avanti alla Corte di Cassazione.
Con l’ordinanza n. 21418/2008 la Suprema Corte di Cassazione prende finalmente posizione sul punto e stabilisce alcuni principio fondamentali.
Innanzitutto si precisa che l’art. 3, L. 102/2006 non è da ritenersi norma speciale nei confronti della norma generale di cui all’art. 7 c.p.c. e, quindi, il legislatore non ha voluto in alcun modo derogare ai principi di competenza stabiliti dal codice di procedura civile. L’art. 3 può, e deve, incidere solo sulle norme processuali ovvero solo sul rito da adottare nel procedimento e non, quindi, sulle varie competenze. Poiché la norma di cui all’art. 413 c.p.c. contiene una disciplina relativa alla competenza per materia e per territorio, in stretta relazione però con l’art. 409 c.p.c. e quindi alle controversie di lavoro, non può considerarsi (l’art. 413 c.p.c.) una norma di diritto processuale a cui allude l’art. 3. Pertanto, la Suprema Corte di cassazione ha ritenuto di stabilire il seguente principio di diritto: «Deve escludersi che la norma dell'art. 3 della L. n. 102 del 2006, nel prevedere che alle cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali, si applicano le norme processuali di cui al libro Il, titolo IV, capo I del codice di procedura civile, abbia attribuito al Tribunale la competenza su tali cause, così sottraendole alla previsione di competenza del giudice di pace per materia con limite di valore, di cui all'art. 7, secondo comma, c.p.c.».
Ma di fondamentale importanza, riteniamo, è quanto stabilisce nel prosieguo dell’ordinanza la Suprema Corte. Quest’ultima, infatti, ha ritenuto che: 1) il rito del lavoro non è compatibile con l’esercizio della giurisdizione da parte di un giudice onorario quale il Giudice di Pace; 2) l’intento del legislatore era quello di un rito più celere per tali tipologie di cause e assegnando assegnando uno strumento processuale sofisticato quale il rito del lavoro al Giudice di Pace si otterrebbe l’effetto contrario; 3) che l’applicazione del rito del lavoro avanti al Giudice di Pace comporta che nella pratica anche i danni a cose di minima entità debbano essere trattati con tale rito; 4) quando il legislatore detta una norma sul rito potenzialmente idonea ad essere applicata - come l'art. 3 di cui si discorre - anche al processo dinanzi al giudice di pace, perché la potenzialità sia effettiva e la norma possa essere interpretata nel senso d'essere applicabile anche dinanzi al giudice di pace, è necessario che essa disponga in tale senso "in modo espresso", cosa che il detto art. 3 non ha fatto in alcun modo, non contenendo alcun riferimento al processo dinanzi al Giudice di Pace. Alla luce di queste considerazioni, la Corte di Cassazione ha, quindi, stabilito quest’altro principio: «deve escludersi che l'intentio legis di cui è espressione l'art. 3 si sia voluta indirizzare nel senso di disporre l'applicabilità delle norme del c.d. rito del lavoro anche quando le cennate controversie debbano essere trattate dinanzi al giudice di pace, onde la norma in discorso si deve intendere riferita soltanto all'ipotesi di causa davanti al Tribunale ».
In sostanza, per concludere,la Corte di Cassazione ha stabilito che nei sinistri con lesioni, per cui sia competente per valore il Giudice di Pace, non si debba applicare il rito del lavoro ma il rito ordinario.
martedì 7 ottobre 2008
Circolazione auto, assicurazione, auto in sosta, necessità, sussistenza
I veicoli, ancorché privi di parti essenziali per un’autonoma circolazione o fortemente danneggiati od usurati, non sono esclusi dall’obbligo assicurativo se non risulti la prova della loro assoluta inidoneità alla circolazione e la loro sostanziale riduzione allo stato di rottame, non rilevando in contrario neppure la circostanza che il proprietario abbia raggiunto accordi con terzi per provvedere all’asporto ed alla successiva demolizione.
lunedì 6 ottobre 2008
Concorrenza e risarcimento: sulla legittimazione ad agire del consumatore
Tale azione, infatti, deve ritenersi esperibile da parte di tutti quei soggetti del mercato che abbiano interesse alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere.
Il consumatore, pertanto, quale acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, ha il diritto di agire per il risarcimento del danno qualora, di fronte ad un’intesa restrittiva, veda eluso il suo diritto di scelta tra più prodotti in concorrenza.
In sostanza, poiché la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce un danno da una contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione “a monte” tra gli operatori del settore, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori dell’intesa restrittiva, è legittimato ad esperire l’azione di accertamento della nullità dell’impresa e il risarcimento del danno di cui all’art. 33 Legge n. 287/90.
Nel caso di specie il consumatore aveva lamentato l’esistenza di un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza posta in essere da numerose compagnie di assicurazione, tra le quali l’impresa convenuta, tesa a far aumentare i costi delle polizze, procurando alle stesse un ingiusto profitto a danno dei contraenti.
La Corte d’appello di Napoli ha rigettato la domanda proposta poiché ha ritenuto non provato dall’attore l’effettivo pregiudizio patito per effetto dell’intesa anticoncorrenziale.
Nella fattispecie, infatti, l’Autorità Garante si era limitata a stigmatizzare il mero scambio di dati sensibili, ritenendolo potenzialmente idoneo ad alterare il gioco della concorrenza, ma non aveva altresì accertato che tra le compagnie assicuratrici vi fosse stato un accordo sulle tariffe da applicare, né che lo scambio d’informazioni avesse avuto concreti effetti sulla formazione dei premi assicurativi tale da determinare un ingiusto incremento degli stessi rispetto a quelli che sarebbero stati praticati in un mercato “non turbato”.
Il consumatore che promuove l’azione risarcitoria ex art. 33 della citata legge non può, infatti, esimersi dall’onere di provare di aver subito un effettivo pregiudizio in conseguenza dell’atto anticoncorrenziale e, pertanto, nel caso in esame, l’attore, per ottenere il risarcimento richiesto, avrebbe dovuto dimostrare di aver corrisposto alla compagnia convenuta un premio maggiore rispetto a quello dovuto a causa della partecipazione di quest’ultima all’intesa vietata.
mercoledì 1 ottobre 2008
Sulle clausole di polizza che delimitano il rischio assicurato
Sulla base di tale principio interpretativo la Suprema corte ha cassato la sentenza della Corte d’appello di Venezia che aveva respinto la richiesta di indennizzo proposta dall’assicurato, in quanto rientrante nell’esclusione di cui all’art. 4, comma 3, delle condizioni generali di assicurazione, che prevedeva la non indennizzabilità per qualsiasi cura, protesi dentaria e paradentopatie, indipendentemente dall’accertamento della causa generatrice dell’intervento.
L’assicurato aveva sostenuto, invece, che la cura, in quanto dovuta da infortunio e non da ragioni estetiche o dal normale invecchiamento dell’apparato dentario, fosse indennizzabile.
Il Supremo collegio ha ritenuto insufficiente la motivazione offerta dalla Corte d’Appello in quanto basata su un’interpretazione meramente testuale della volontà delle parti.
In particolare non è stata sufficientemente indagata la ratio dell’esclusione dell’indennizzabilità delle cure dentarie e dell’espressione “indipendentemente dalla causa che le rende necessarie”, soprattutto ove raffrontata con la parallela esclusione, prevista nei contratti di assicurazione, dell’indennizzabilità degli interventi di chirurgia plastica prevista solo nei casi in cui non siano resi necessari da un infortunio.
Il richiamo a tale ultima ipotesi di esclusione comporta, a parere della Suprema corte, una corretta valutazione anche dell’espressione “indipendentemente dalla causa che le rende necessarie”, che potrebbe limitare l’esclusione dell’indennizzabilità delle cure e protesi dentarie solo ove siano dipendenti da malattia.
In tali ipotesi di esclusione dell’indennità assicurativa, pertanto, deve essere valutato se il presumibile criterio di eliminazione di una sovraesposizione del rischio assicurato, dipendente dalla inclusione fra gli eventi indennizzabili di cure dentarie e di interventi di chirurgia plastica, che si caratterizzano per il loro costo economico, non tolleri in entrambi i casi una maggiore copertura assicurativa quando interventi di tal specie dipendano e siano resi necessari da un infortunio.
giovedì 28 agosto 2008
Benvenuti
All'interno di questo spazio che comunemente viene chiamato dagli utenti di intenet: blog, trovate la giurisprudenza più interessante che potrà essere d'aiuto sia agli operatori del diritto che ai semplici utenti.
Periodicamente, oltre alle sentenze, sarà possibile trovare anche commenti relativi alle più svariate questioni giuridiche che periodicamente impegnano gli operatori del diritto.
Il servizio non ha pretese di completezza o di consulenza giuridica, ma vuole essere solo un supporto di aggiornamento, analisi ed approfondimento.