venerdì 19 dicembre 2008

Corte di Cassazione n° 10651/08 – viaggi “tutto compreso” – responsabilità del tour operetor – 24.04.08.

La Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, rigettando il ricorso presentato da un tour operetor, ha confermato la sentenza di accoglimento emessa in primo grado dal Giudice di Pace di Roma e ribadita in appello dal Tribunale, in materia di viaggi cd. “tutto compreso” e risarcimento del “danno da vacanza rovinata”. La Suprema Corte ha, tra l’altro, affrontato la problematica relativa all'esonero del professionista dalla responsabilità, nel caso in cui la mancata o inesatta esecuzione del contratto è imputabile al consumatore ovvero dipende da fatto imprevedibile o inevitabile del terzo o da forza maggiore o caso fortuito. CORTE DI CASSAZIONE I Saz. Civile – Sentenza n. 10651/2008 Svolgimento del processo F.A. e C.G. agivano in giudizio nei confronti della s.p.a. "I Viaggi del V. " deducendo di aver acquistato un soggiorno "tutto compreso" nell'isola di Djerba, in Tunisia, in un villaggio turistico "V. ". La vacanza era stata compromessa dalle condizioni di impraticabilità del mare durante tutto il loro soggiorno a causa dello scarico abusivo compiuto da una petroliera. Gli attori lamentavano la mancata adozione da parte del tour operator di misure idonee a fornire loro servizi alternativi durante il soggiorno e chiedevano di essere indennizzati per il danno loro derivato a causa di tale comportamento della società convenuta. Il Giudice di Pace di Roma, con sentenza n. 647/00, accoglieva la domanda liquidando, in favore degli attori, il danno nella complessiva somma per entrambi di L. 1.400.000, pari alla metà del costo della vacanza. Proponeva appello la società "I Viaggi del V. " e il Tribunale di Roma, con sentenza n. 548 9/03, confermava la decisione del Giudice di pace. Il Tribunale, dopo aver rilevato che il contratto intercorso fra le parti aveva avuto ad oggetto un soggiorno nel villaggio balneare di Djerba della V. secondo la formula del pacchetto turistico "tutto compreso" (c.d. package tour) e che le condizioni del mare furono durante il soggiorno compromesse in modo gravissimo dallo scarico abusivo di una petroliera al largo della costa tunisina, affermava che le condizioni di impraticabilità del mare avevano comportato l'impossibilità per l'organizzatore del viaggio di fornire una parte importante della prestazione. Riteneva infatti il giudice dell'appello che il soggiorno aveva perso di utilità a causa delle condizioni di impraticabilità del mare e, conseguentemente, applicava il D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 12, comma 4, che ha recepito nell'ordinamento italiano la direttiva comunitaria n. 314/1990/CEE. Secondo tale disposizione normativa, nel caso in cui, dopo la partenza, una parte dei servizi previsti dal contratto di viaggio "tutto compreso" non può essere effettuata, l'organizzatore è tenuto a predisporre adeguate soluzioni alternative per la prosecuzione del viaggio programmato oppure a rimborsare il consumatore nei limiti della differenza fra le prestazioni originariamente previste e quelle effettuate, salvo il risarcimento del danno. Nella specie il Tribunale ha riscontrato che l'operatore turistico non aveva adempiuto all'obbligo di attivarsi per offrire al cliente soluzioni alternative nè aveva offerto una parziale restituzione del prezzo. Contro la sentenza del Tribunale di Roma ricorre per cassazione con due motivi la spa I Viaggi del V. . Si difendono con controricorso e depositando memoria ex art. 378 c.p.c.. F.A. e C.G.. Motivi della decisione In primo luogo va respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso, ex artt. 365 e 83 c.p.c., proposta da parte dei controricorrenti con riferimento all'autentica della procura effettuata da un avvocato non cassazionista. Sul punto la giurisprudenza di legittimità (Cassazione civile sezione 2^ n. 23994 del 27 dicembre 2004, Rv. 578501) ha chiarito che la mancata certificazione, da parte del difensore, dell'autografia della firma da parte del ricorrente, apposta sulla procura speciale in calce o a margine del ricorso per cassazione, costituisce mera irregolarità, che non comporta la nullità della procura "ad litem", sia perchè tale nullità non è comminata dalla legge, sia perchè detta formalità non incide sui requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell'atto, individuabile nella formazione del rapporto processuale attraverso la costituzione in giudizio del procuratore nominato, salvo che la controparte non contesti, con valide e specifiche ragioni e prove, l'autografia della firma non autenticata. Con il primo motivo di ricorso la società "I viaggi del V. " lamenta la mancata applicazione del D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 17, che prevede l'esonero del professionista dalla responsabilità di cui agli artt. 15 e 16 del decreto, nel caso in cui la mancata o inesatta esecuzione del contratto è imputabile al consumatore ovvero dipende da fatto imprevedibile o inevitabile del terzo o da forza maggiore o caso fortuito. Peraltro nella specie la ricorrente contesta che vi sia stata esecuzione parziale del contratto dato che i signori C. e F. hanno usufruito comunque, oltre al viaggio, dell'alloggio, del vitto e dei servizi accessori. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e si rileva in particolare che la sentenza impugnata si contraddice laddove pur riconoscendo il carattere eccezionale ed imprevedibile dell'evento non ne trae le logiche conseguenze. Per altro verso rileva la ricorrente che non sono state valutate le circostanze per cui i sigg.ri C. e F. non hanno presentato nel corso del soggiorno alcuna lamentela e sono stati i soli clienti che, relativamente al periodo in questione, hanno proposto un'azione risarcitoria. I due motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente per la loro evidente connessione logica e giuridica. Come è stato messo in evidenza, sia in dottrina che in giurisprudenza, il viaggio tutto compreso (noto anche come travel package o pacchetto turistico) costituisce un nuovo tipo contrattuale nel quale la "finalità turistica" (o, con espressione più generale, lo "scopo di piacere") non è un motivo irrilevante ma si sostanzia nell'interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, connotandone la causa concreta e determinando, perciò, l'essenzialità di tutte le attività e dei servizi strumentali alla realizzazione del preminente fine del godimento della vacanza per come essa viene proposta dall'organizzatore del viaggio (c.d. tour operator) e accettata dall'utente (si veda in particolare Cassazione civile sezione 3^, n. 16315 del 24 febbraio 2001, Rv. 598453). Si è parlato nella letteratura di commercializzazione in sé della vacanza, esprimendo, in tal modo, il rilievo causale che assume il bene immateriale della vacanza definita dall'insieme degli elementi che consentono all'utente di godere di un periodo di riposo e di svago orientato su una precisa formula proposta dall'organizzatore del viaggio. A tale ricostruzione della causa contrattuale si è pervenuti in considerazione della ratio della disciplina normativa di origine comunitaria (direttiva CEE/90/314) che è fortemente improntata dalle finalità di tutelare il diritto del consumatore a fruire effettivamente della vacanza offerta sul mercato dall'operatore turistico e di consentirgli la facoltà di recedere dal contratto nel caso in cui la fruizione dei servizi caratterizzanti l'offerta si rendano indisponibili sia prima che dopo lai partenza. Per altro verso la disciplina di recepimento della direttiva comunitaria, attualmente trasposta nel codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. da 82 a 100), assicura agli imprenditori la possibilità di perseguire la conservazione del contratto mediante offerte alternative e ai consumatori l'opportunità di non subire o ridurre il danno derivante dalla mancata o inesatta esecuzione della prestazione che costituisce nel suo complesso il pacchetto turistico. Di particolare rilievo, sotto questo profilo, quanto previsto dall'art. 91 del codice del consumo per l'ipotesi in cui, dopo la partenza, una parte essenziale dei servizi previsti dal contratto non può essere fornita. In tale ipotesi dell'art. 91, comma 4, prevede che l'organizzatore predispone adeguate soluzioni alternative per la prosecuzione del viaggio programmato, non comportanti oneri di qualsiasi tipo a carico del consumatore, oppure rimborsa quest'ultimo nei limiti della differenza tra le prestazioni originariamente previste e quelle effettuate, salvo il risarcimento del danno. Il comma successivo prevede poi che, se non è possibile alcuna soluzione alternativa o il consumatore non l'accetta per un giustificato motivo, l'organizzatore gli mette a disposizione un mezzo di trasporto equivalente per il ritorno al luogo di partenza o ad altro luogo convenuto e gli restituisce la differenza fra il costo delle prestazioni previste e quello delle prestazioni effettuate fino al momento del rientro anticipato. La controversia in esame pone alcuni problemi interpretativi concernenti specificamente le disposizioni citate contenute nell'art. 91. In primo luogo va chiarita con riferimento a tale disposizione l'estensione del concetto di servizi che costituiscono una parte essenziale della prestazione turistica a carico dell'organizzatore di viaggi. In secondo luogo ci si deve chiedere se il comportamento, cui l'imprenditore è tenuto in base alla norma in discussione, presupponga che l'impossibilità di fornire, dopo la partenza, i servizi costituenti parte essenziale della prestazione derivi solo da fatto ascrivibile all'imprenditore stesso. Infine deve valutarsi se l'imprenditore sia esente dall'osservanza delle prescrizioni della norma in esame qualora l'impossibilità di fornire i servizi derivi da caso fortuito, forza maggiore o fatto ascrivibile a un terzo che abbia i requisiti dell'imprevedibilità e inevitabilità. Quanto al primo punto deve rilevarsi che il Tribunale ha correttamente posto la questione interpretativa che caratterizza la presente controversia rilevando che sebbene la fruizione del mare e della spiaggia non possa essere considerata in senso stretto un servizio turistico tuttavia è evidente che essa costituisce il presupposto di utilità del pacchetto turistico. Da questa logica considerazione deriva che è eccessivamente restrittiva una lettura dell'espressione servizi come prestazioni direttamente dipendenti dall'attività e dalla struttura imprenditoriale dell'organizzatore del viaggio. In ogni caso è eccessivamente restrittivo, se si tiene conto della descritta ratio ispiratrice della direttiva comunitaria, un campo di applicazione dell'art. 12 del decreto legislativo, e attualmente dell'art. 91 del codice del consumo, limitato alle sole ipotesi in cui l'esecuzione del contratto è impedita o fortemente pregiudicata da fattori che rientrino nel potere di controllo del tour operator. Se, per esempio, si considera l'ipotesi di un viaggio organizzato è evidente ritenere che il venir meno di una linea di trasporto pubblico che avrebbe dovuto consentire di raggiungere una certa località costituirà, oggettivamente, il venir meno di un servizio essenziale per il programmato svolgimento del viaggio cui l'organizzatore dovrà comunque supplire, ad esempio, con il ricorso a mezzi di trasporto propri o privati. Deve ritenersi quindi logica e coerente alla ratio della direttiva comunitaria una interpretazione che renda applicabile la norma anche quando a venir meno non sono i servizi riconducibili all'attività del tour operator ma piuttosto i presupposti estrinseci della vacanza che rendono rilevanti e utili i servizi offerti dal tour operator. Il metro di valutazione per l'applicazione della norma deve essere quindi quello dell'utente dei servizi che ha diritto a fruire attraverso di essi a quelle utilità tipiche del soggiorno, della vacanza o del viaggio che il tour operator ha posto sul mercato. In queste utilità rientrano ad esempio le possibilità di accesso alle attrattive ambientali, artistiche o storiche che sono alla base della scelta da parte del turista di acquistare quello specifico pacchetto turistico sicchè la impossibilità di accedere ad esse costituisce il venir meno di un presupposto essenziale di utilizzazione del servizio che l'organizzazione e la struttura ricettiva dell'organizzatore del viaggio mettono a disposizione del consumatore. Nella specie sembra rispondente a tale interpretazione riconnettere alla fruibilità di un mare di particolare bellezza e attrattività come quello dell'isola di Djerba il carattere di presupposto essenziale del servizio tale da costituire una parte essenziale della prestazione turistica perchè strettamente connesso all'ubicazione e al richiamo commerciale del villaggio presso cui era programmato il soggiorno. Sotto questo aspetto la motivazione del giudice di merito appare dunque congrua e conforme a una lettura della norma che tenga conto di quella rilevanza causale che la vacanza assume nel c.d. travel package. Senza che sia possibile attribuire alcun vizio, di insufficienza o incongruenza, alla motivazione che non ha tenuto conto né dei mancati reclami immediati degli odierni controricorrenti, né della mancata proposizione di azioni giudiziali da parte degli altri soggiornanti. Il disposto dell'art. 91 del codice del consumo non autorizza certo a prefigurare una sorta di acquiescenza del consumatore alla mancata attivazione dell'organizzatore tale da giustificarla e renderla non sanzionabile. La risposta al primo quesito che ci si è posti rende più agevole quelle ai due quesiti successivi. Infatti tali risposte sono coerenti alla prima se si ha come punto di orientamento nell'interpretazione della disciplina comunitaria la sua funzione ispiratrice primaria. Quella di tutelare il godimento di un bene (la vacanza) che riveste un particolare valore esistenziale nella vita delle persone che dedicano la maggior parte del loro tempo al lavoro. Sicché il legislatore è intervenuto per garantire la corrispondenza fra aspettativa di svago, riposo, evasione, apprendimento che una vacanza può fornire e offerta commerciale proveniente dal tour operator. Ovviamente quest'ultimo non potrà garantire, per esempio, la soddisfazione spirituale o estetica che il consumatore si era prefigurato di trarre da quella vacanza ma sarà tenuto a garantire i servizi che almeno teoricamente possono attribuire quel piacere del viaggio o del soggiorno che il consumatore ha percepito come il valore specifico e determinante dell'offerta commerciale dell'organizzatore e, per quanto si è detto in precedenza, sarà tenuto ad adoperarsi quando il presupposto di utilizzabilità dei servizi sia venuto a mancare. In questa prospettiva non vi è alcuna ragione, né alcuna ragione testuale in particolare, per ritenere che gli obblighi di predisporre adeguate soluzioni alternative per la prosecuzione del viaggio programmato (non comportanti oneri di qualsiasi tipo a carico del consumatore), oppure di rimborsare quest'ultimo nei limiti della differenza tra le prestazioni originariamente previste e quelle effettuate, non sussistano nel caso in cui i servizi previsti non siano fruibili per fatto non imputabile al tour operator. Quest'ultimo assume infatti un obbligazione di risultato (cfr.Cassazione Sez. 3^, Sentenza n. 21343 del 09/11/2004, Rv. 578572) con la stipulazione del contratto di viaggio o soggiorno tutto compreso e di tale risultato è tenuto a rispondere. Il legislatore comunitario e nazionale hanno ovviamente limitato questa responsabilità del tour operator per renderla compatibile con il carattere economico della sua attività. In questa prospettiva opera già l'opzione, prevista dell'art. 91 del codice del consumo, comma 4, fra la offerta di servizi alternativi o quella del rimborso della differenza fra prestazione originariamente prevista e prestazione effettuata. In questa prospettiva va letto anche l'esonero di responsabilità previsto dall'art. 96 del codice del consumo (che riproduce il testo del D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 17). Tale esonero di responsabilità non si riferisce però alla prestazione di servizi alternativi o agli obblighi del tour operator (previsti dall'art. 91 per le ipotesi di modifiche delle condizioni contrattuali), come pretenderebbe la società ricorrente, ma si riferisce invece alla responsabilità per danni derivanti dall'inadempimento o dalla inesatta esecuzione delle prestazioni che formano oggetto del pacchetto turistico (responsabilità disciplinata dagli artt. 94 - 95 del codice del consumo). Ne risulta quindi che la causa dell'inadempimento, o inesatto adempimento, delle prestazioni previste nel pacchetto turistico resta indifferente, se si ha riguardo agli obblighi e diritti derivanti dalla disciplina delle modifiche delle condizioni contrattuali di cui all'art. 91 del codice del consumo. Al contrario il tour operator non sarà responsabile per i danni ascrivibili all'inadempimento o inesatto adempimento qualora dimostri la sussistenza delle condizioni per l'esonero di responsabilità previsto dall'art. 96. Una estensione della disciplina dell'esonero agli obblighi derivanti dall'art. 91, deve invece escludersi oltre che per ragioni testuali anche per l'evidente contrasto che si verificherebbe con la ratio della disciplina comunitaria e con lo stesso principio fondamentale sancito in questa materia dall'art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea che prevede come fine istituzionale dell'Unione un elevato livello di tutela dei consumatori. Tale elevato livello di tutela consiste proprio, nella specie, nell'irrilevanza della causa del venir meno delle condizioni di utilizzabilità dei servizi previsti nel contratto di soggiorno tutto compreso e ciò al fine di impedire che eventi estranei alla responsabilità del consumatore e del tour operator comportino l'esonero di responsabilità di quest'ultimo per l'adempimento degli obblighi derivanti dall'art. 91 del codice del consumo. Esonero che comporterebbe una ripartizione del rischio per gli eventi esterni alle specifiche prestazioni delle parti a totale carico del consumatore. Con l'adempimento di tali obblighi il legislatore ha invece previsto una serie di meccanismi che possono qualificarsi come strumenti di riequilibrio della sinallagmaticità del contratto e di tutela dell'effettività di una prestazione avente un rilevante valore immateriale per il consumatore. La finalità e l'operatività stessa di tali strumenti è quindi intrinsecamente incompatibile con la valutazione della responsabilità del tour operator per la causazione di quei fattori esterni che comportano l'inutilizzabilità o la ridotta utilizzabilità dei suoi servizi. Il ricorso va pertanto respinto con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte: Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 1.100,00, di cui Euro 100,00, per spese, con spese generali e accessori di legge.

giovedì 27 novembre 2008

Cassazione Civile: nell'intervento adesivo autonomo si possono proporre domande

Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, Sentenza 16 ottobre 2008, n.25264

Il terzo che interviene in un processo, qualora il proprio intervento si possa definire come adesivo autonomo, può proporre proprie autonome domande sino alla precisazione delle conclusioni, fatte salve le preclusioni dei mezzi istruttori. La Cassazione ha così ribadito il proprio orientamento che era stato contrastato dal tribunale di merito. Secondo la Cassazione, infatti, "Sostenere che l'interveniente adesivo autonomo, vale a dire il terzo che interviene nel processo tra altre persone per far valere in confronto di alcune di esse un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo (art. 105 primo comma cpc), possa farlo sino a che non vengano precisate le conclusioni (come dispone l'art. 268 primo comma cpc), ma senza poter proporre proprie autonome domande per le preclusioni poste dagli artt. 183 e 184 cpc alla facoltà delle parti originarie del processo di compiere determinati atti (come quello di proporre domande nuove), significherebbe di fatto vanificare qualsiasi valore ed utilità processuale all'istituto degli interventi contemplati nel suddetto primo comma dell'art. 105 cpc (quello principale e quello litisconsortile), nei quali fondamentale ed ineludibile risulta invero l'attività assertiva del volontario interveniente a tutela dei propri diritti.In altre parole, è evidente che l'aver consentito normativamente che i predetti interventi del terzo nel processo potessero effettuarsi sino al momento di precisazione delle conclusioni perderebbe ogni significato logico-giuridico ove non fosse consentita contestualmente - secondo l'interpretazione dell'art. 268 cpc che qui si contrasta - la formulazione della domanda, che costituisce l'essenza stessa degli interventi in questione. In realtà, con il termine "atti" utilizzato dal citato art. 268 il legislatore ha inteso certamente fare riferimento esclusivamente all'attività istruttoria che l'interveniente dovrebbe svolgere, in conseguenza della domanda proposta, a dimostrazione del diritto vantato, nel senso che, avvenuta la formulazione definitiva delle richieste istruttorie delle parti originarie del processo, resta preclusa all'interveniente la facoltà di espletare ulteriore e diversa attività istruttoria".Sono altresì prive di pregio le preoccupazioni espresse dal tribunale circa profili di illegittimità costituzionale della lettura della norma sopra esposta: "in virtù del principio che l'interveniente nel processo non può svolgere attività istruttoria preliminare e probatoria che la fase eventualmente avanzata del processo stesso non consenta più alle altre parti originarie e, pertanto, della soggezione del terzo alle preclusioni già formatesi tra le parti in causa, la formulazione della domanda da parte del terzo medesimo non può comportare per definizione alcun ritardo nei termini di decisione della causa stessa o, a maggior ragione, lesione del contraddittorio, dovendo la domanda suddetta essere decisa alla stregua delle prove già acquisite in atti senza poterne espletare altre e svolgendosi comunque l'intervento del terzo in un giudizio in cui le altre parti interessate sono già regolarmente costituite o sono state messe in grado ritualmente di farlo".

mercoledì 26 novembre 2008

OBBLIGAZIONI IN GENERE - PAGAMENTO AL CREDITORE APPARENTE - EFFICACIA LIBERATORIA

Cass. Civ. III sez. - Sentenza n. 26052 del 30 ottobre 2008

Il pagamento effettuato nelle mani di un creditore apparente ha efficacia liberatoria, a condizione che il debitore abbia in buona fede e senza colpa ritenuto il destinatario del pagamento legittimato a riceverlo. Le circostanze dalle quali desumere la scusabilità dell’erroneo pagamento vanno desunte in particolar modo dal comportamento sia dell’accipiens, sia del vero creditore, e deve ritenersi esistente una situazione di apparenza scusabile in tutti i casi in cui ambedue si sono comportati in modo da lasciar intendere che l’uno fosse il rappresentante dell’altro. Applicando questo principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, con la quale era stato ritenuto non liberatorio il pagamento di merce effettuato da una società commerciale nelle mani di una persona diversa dal venditore (anch’esso una società commerciale), in un caso in cui l’accipiens era risultato essere il padre dei soci della società venditrice, aveva condotto le trattative per la conclusione dell’affare, aveva girato alla società venditrice parte dei pagamenti ricevuti, ed aveva utilizzato gli uffici della società venditrice per l’invio di fax durante le trattative.

martedì 18 novembre 2008

Incompetenza degli A.T.O. a determinare le tariffe per il servizio di smaltimento rifiuti

La Sez. VI della Commissione Tributaria di Catania ha dichiarato la nullità delle fatture TIA per il servizio di smaltimento rifiuti effettuato dagli ATO sulla base dell'incompetenza di quest'ultime a determinare le tariffe.
Compito che invece spetta inderogabilmente ai Comuni ed in particolare ai Consigli Comunali.
Di seguito la sentenza:

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI CATANIA

LA SEZIONE 06 riunita con l'intervento dei Signori:
VITELLIO DOTT. ITALO Presidente
VERGA DOTT. VINCENZO Relatore
RAMPOLLO DOTT. FLAVIO Giudice
Reg. gen. N. 0000/08
Udienza del 30.09.2008 ore 09:00
Sentenza n. 805/6/2008
Pronunciata il 30.09.2008
Depositata in segreteria il 14.10.2008

Con atto depositato il 14.3.2008, CAIO proponeva ricorso avverso la fattura Tia n. 2007 00000000 del 15.11.2007 per euro 271,80, relativa al conguaglio, periodo di riferimento 1.1.2004-31.12.2005, emessa dalla Serit Sicilia Spa per conto dell'ATO CT 3 " Simeto Ambiente S.p.A", riguardante il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani, chiedendone l'annullamento. A sostegno della domanda il ricorrente deduceva: 1) la nullità degli atti impugnati perché la disciplina generale della T.I.A. non poteva che ascriversi alla competenza del Consiglio Comunale; 2) la violazione dell'ari. 49 del D.Lgs. n. 22/97 e del D.P.R. n. 158/'99; 3) incompetenza istituzionale della Serit. L'ente impositore non si costituiva in giudizio. All'odierna udienza camerale, la Commissione poneva in decisione il ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

A giudizio di questa Commissione il ricorso deve essere accolto, fondato appalesandosi il principale motivo di opposizione, poiché esula certamente dalla competenza dell'ATO CT 3 " Simeto Ambiente S.p.a". il potere di determinare l'entità della tariffa per il servizio in questione.
Ed invero, ai sensi del surrichiamato art. 49 del D.Lgs. n. 22/'97, così come modificato dalla legge n. 488/'99, ... i costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualsiasi natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o soggette ad uso pubblico sono coperti dai Comuni mediante la istituzione di una tariffa... .composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio... e da una quota rapportata alla quantità dei rifiuti conferiti. La tariffa è determinata dagli enti locali, anche in relazione al piano finanziario degli interventi relativo al servizi.
Con tale previsione legislativa, com'è evidente, è stata attribuita ai Comuni una specifica funzione, indiscutibilmente di natura pubblicistica, che riguarda espressamente la determinazione della tariffa correlata all'espletamento di un servizio collettivo, funzione alla quale gli stessi, in difetto di una previsione normativa di rango pari a quella della fonte attributiva, non possono rinunziare mediante l'esercizio del potere di senza pregiudicare la legittimità del proprio operato e di ogni provvedimento consequenziale.
A conferma della giustezza di tale principio va richiamata la giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui il potere di delega, in quanto altera l'ordine delle competenze degli organi abilitati ad emettere atti con efficacia esterna stabilite con atto normativo primario o secondario, necessita di un supporto normativo di valore almeno pari a quello attributivo della competenza ordinaria, in quanto diversamente opinando si renderebbe arbitra l'Amministrazione di spostarla caso per caso, e senza alcuna previsione di limiti aggettivi e soggettivi, con l'effetto di privare l'amministrato delle garanzie che sono insite nelle attribuzioni di uno specifico organo. Nel caso in esame, ad avviso di questa Commissione, le delibere commissariali e consiliari sulle quali ATO CT 3 fonda la propria legittimazione ad istituire le tariffe per il servizio, determinandone l'entità, sono da considerarsi illegittime perché adottate in assenza di disposizione di legge che le autorizzassero e devono essere disapplicate a norma dell'art. 5 della legge 20-03-1865 n. 2248, ali. E, secondo cui il giudice è tenuto ad applicare gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi.
Tale convincimento trova conforto nell'impugnazione proposta dal Commissario dello Stato avverso l'art. 11, comma 1°, della legge regionale n. 17 del 2004, che esplicitamente assegnava alle Società d'Ambito la competenza a determinare la t.i.a., per il motivo che la disposizione adottata si poneva in contrasto con quanto previsto dall'art. 49, comma 8°, del D.Lgs. n. 22/'97 che assegna agli enti locali la competenza a determinare le tariffe relative al servizio in questione. A seguito di tale impugnazione, notisi, la legge regionale suddetta è stata pubblicata sulla G.U.R.S. n. 56 del 31-12-2004 senza la norma sopra menzionata, norma che, quindi, non è mai entrata in vigore.Non vale obiettare che, anche con sentenza recentemente emessa (n. 52 del 2008), il Tribunale Amministrativo Regionale, Sezione Staccata di Catania, ha riconosciuto la competenza delle Società d'Ambito a determinare la t.i.a.
Secondo tale sentenza in verità, era avvenuto un vero e proprio trasferimento di funzioni con relativo mutamento nella titolarità del potere, che dal Comune trasla, in via amministrativa, in capo all'Ente pubblico appositamente costituito. Il trasferimento di funzioni, a giudizio della Sezione staccata di Catania del T.A.R., era reso legittimo dall'art. 1 ter del D.L. 07-02-2003 n. 15 (convertito nella legge 08-04-2003 n.62), il quale, per fronteggiare la persistente eccezionale ed urgente necessità di superare l'emergenza ambientale, aveva espressamente confermato i vari decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri al riguardo emanati tra il 1999 ed il 2002, la nomina del Presidente della Regione siciliana a Commissario delegato ed i poteri e le competenze di cui all'O.M. 31 maggio 1999 n.2983 del Ministro dell'Interno delegato per il coordinamento della protezione civile, nonché le ordinanze di protezione civile ed i conseguenti provvedimenti emanati in regime commissariale, sul territorio nazionale, inerenti alle situazioni di emergenza ambientale e relativamente allo stato di inquinamento delle risorse idriche nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, speciali e speciali pericolosi, in materia di bonifica e risanamento ambientale dei suoli, delle falde e dei sedimenti inquinati, nonché in materia di tutela delle acque superficiali e sotterranee e dei cicli di depurazione.
E' stato rilevato nella sentenza che con l'O.M. n. 2983 del 31-05-1999, era stata conferita al Commissario Delegato, ai fini dell'esecuzione del mandato, la potestà di derogare, ove necessario, ad una serie di norme, in esse compreso l'art. 32 della legge 09-06-1990 n. 142, come recepito dalla legge della Regione siciliana 11-12-1991 n. 48, articolo riguardante le competenze dei Consigli comunali, tra le quali rientrava l'istituzione e l'ordinamento dei tributi e la disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi.
Ad avviso di questa Commissione, però, contrariamente a quanto affermato dal T.A.R., Sezione staccata di Catania, non può fondatamente ritenersi che con l'O.M. suddetta sia stata conferita al Commissario Delegato la potestà di derogare alla competenza dei Consigli comunali in materia di istituzione ed ordinamento dei tributi e di disciplina delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi, di cui all'art. 32 comma 1 lett. g) della legge sopra richiamata. L'art. 15 della suindicata Ordinanza Ministeriale, infatti, prevede che il Commissario delegato possa derogare ad una serie di norme ma nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico. E non è certamente conforme ai principi generati dell'Ordinamento che l'Ente comunale deleghi alle società d'ambito i suoi poteri relativi all'ordinamento dei tributi ed alla disciplina delle tariffe per la fruizione di beni e servizi.
Non può considerarsi decisiva, l'inclusione dell'art. 32 sopra citato nelle norme derogabili ai sensi dell'art. 15 dell'O.M. n. 2983 del 1999, oltre che per le considerazioni svolte, per il fatto che l'art. 32, oltre alla competenza dei Consigli comunali nella materia testé indicata, prevede quella degli stessi Consigli per tutta una serie di arti, per i quali nessun ostacolo normativo osta alla deroga. Tanto ciò è vero che l'art. 15 dell'Ordinanza sopra richiamata non prevede la facoltà di derogare all'ari. 49 del D.L.vo n. 22/'97, secondo il quale la tariffa per lo smaltimento dei rifiuti è determinata dagli enti locali.
Né vale richiamare, come fa in un certo qual modo il T. A.R. nella succitata sentenza, il D.L.vo 03-04-2006 n. 152 (Norme in materia ambientale), non applicabile nella specie perché non ancora in vigore. L'art. 238, comma 6°, del D.L.vo testé menzionato, infatti,prevede che, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della parte quarta del decreto medesimo, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro delle attività produttive, sentiti la Conferenza Stato regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, le rappresentanze qualificate degli interessi economici e sociali presenti nel Consiglio economico e sociale per le politiche ambientali e i soggetti interessati, avrebbe disciplinato con apposito regolamento i criteri generali sulla base dei quali vengono definite le componenti dei costi e viene determinata la tariffa. Secondo lo stesso articolo, la tariffa sarebbe stata determinata dalle Autorità d'ambito entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del regolamento suddetto (art. 238, comma 3) e fino all'emanazione del regolamento e fino al compimento degli adempimenti per l'applicazione della tariffa avrebbero continuato ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti.
Peraltro, la tesi accolta da questa Commissione trova riscontro nelle sentenze del Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione prima (v. le sentenze a 2290/'07e2995/'07).
Con tali sentenze, il Tribunale Amministrativo Regionale, difformemente da quanto deciso dalla sua Sezione staccata di Catania, ha statuito che, in attesa dell'entrata in vigore del D. Lgs. n. 152/2006, il potere di determinare la tariffa per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti spetta al Consiglio Comunale. A tale conclusione il Tribunale Amministrativo Regionale è pervenuto con le sentenze sopra richiamate considerando: che il legislatore, con l’art. 49 comma 8° del D.L.vo n. 22/'92, aveva espressamente previsto che la tariffa era determinata dagli Enti locali; che anche secondo il D.P.R. n. 158/'99 "l'Ente locale determina la tariffa" sulla base del piano finanziario; che alla contraria tesi non giovava il riferimento alle varie ordinanze emesse dal Presidente della Regione - Commissario Straordinario all'emergenza rifiuti; che, del resto, l'O.M. n. 2983 del 31-05-1999 non attribuiva al Commissario Straordinario il potere di apportare deroghe alla previsione normativa dell'art. 49 D. Lgs. n. 22/'97; che lo stesso piano di gestione per i rifiuti in Sicilia non risultava utile alla tesi contraria, prevedendo che "la tariffa è determinata dagli Enti locali ed applicata e riscossa dagli Enti gestori del servizio"; che il mantenimento del potere di determinazione della tariffa in capo all'ente comunale, così come previsto dall'ari 49 del D. Lgs. n. 22/'92, non costituiva ostacolo alla funzione organizzativa e gestoria dell’A.T.O.; che, ove fosse stato già legittimamente riconosciuto alla società di gestione il potere di fissare la tariffa, non si comprenderebbe il motivo per cui il legislatore regionale aveva attribuito, con l’art. 11, comma 1°, della Legge reg. n. 17 del 2004, alle Società d'ambito detto potere; che tale norma, comunque, era stata impugnata dal Commissario dello Stato per illegittimità costituzionale e non era stata, poi, pubblicata; che impropriamente era stata richiamata la novella legislativa di cui al D. Lgs. n. 152/'06, con la quale veniva attribuito alle Autorità d'Ambito, peraltro diverse dalle precedenti Società d'ambito, il potere di determinare la tariffa, perché non ancora in vigore.Le delibere commissariali e consiliari sulle quali TATO CT 3 fonda il suo operato, pertanto, non possono non essere dichiarate illegittime.
L'illegittimità delle ordinanze di cui si è detto, ovviamente, si estende alla fattura oggetto del presente giudizio, che pertanto deve essere annullata. Impregiudicato resta, ovviamente, il diritto dell'ATO CT 3 di richiedere in altra competente sede e sotto altro profilo, la determinazione e la liquidazione di un corrispettivo per il servizio prestato.
Per quanto concerne le spese processuali, ritiene la Commissione, avuto riguardo alla natura della controversia ed alle peculiarità delle questioni trattate, che ricorrano giusti motivi per compensarle integralmente tra le parti.

P. Q. M.

La Commissione accoglie il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Catania il 30.09.2008.

mercoledì 12 novembre 2008

Il danno esistenziale esiste? La posizione delle Sezioni Unite

Cassazione civile , S.S.U.U., sentenza 11.11.2008 n° 26972

Negli ultimi anni la figura del danno esistenziale ha scritto importanti momenti, oscillando tra terreni fertili ed aridi, tra favorevoli e contrari, convegni e libri, emozioni e paure.
In particolare, era dubbio cosa si dovesse intendere con la categoria danno esistenziale; altresì, non era chiaro se tale figura, anche laddove esistente, potesse essere cumulata con il danno biologico (inteso come lesione del diritto alla salute, ex art. 32 Cost.) e danno morale (inteso, tradizionalmente, come transitorio turbamento psicologico).
Finalmente, con una presa di posizione decisa, le Sezioni Unite hanno affermato che il danno non patrimoniale, ex art. 2059 c.c., non può essere suddiviso in diverse poste risarcitorie, ma va considerato essenzialmente come unicum.
La posizione delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite affrontano, ex professo, la problematica de qua.
Innanzitutto, l’art. 2059 c.c. va completato con gli elementi strutturali dell’art. 2043 c.c.
Poi, esistono ipotesi codificate di risarcimento del danno non patrimoniale in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 1. n. 117/199), danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; art 29, comma 9, 1. n. 675/1996; impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998; adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2 1. n. 89/2001; mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).
Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 ce, il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dagli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l'art. 2043 ce e l'art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall'art. 2059 ce, norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall'origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).
Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto[1]).
Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).
Al di fuori di tali casi, è posssibile ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale, ma solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata[2]. Pertanto, non possono essere risarcite tutte le lezioni alla persona ovvero tutti i pregiudizi non patrimoniali, ma soltanto quelli che realizzano un’ingiustizia costituzionalmente qualificata.
Vanno abbandonate le sottocategorie del danno esistenziale[3] e danno morale[4], perché bisogna solo verificare la lesione di diritti inviolabili della persona; inoltre, la lettura che l’interprete deve seguire è quella dell’art. 2059 c.c. con i diritti costituzionali inviolabili, che non vanno intesi come un numerus clausus: la tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana[5].
Il c.d. pregiudizio di tipo esistenziale è, quindi, risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.
La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza[6].
Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità[7] ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).
Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.
Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona[8], della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.
Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni.
Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 ce, secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.
L'individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell'area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale.
Anche nel danno non patrimoniale può confluire lo schema logico risarcitorio ex art. 1223 c.c., che la conseguenza che anche in questa materia bisognerà tenere presente sia la perdita subita, quanto la mancata utilità[9].
Per quanto riguarda la complicatissima tematica del danno tanatologico[10], inerente all’irrisarcibilità del danno da morte immediata, che ipotizzava un vulnus al sistema risarcitorio (perché si rischiava di lasciar priva di tutela giuridica la vittima dell’illecito sol perché non sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo tra lesione e morte, riducendo notevolmente le possibilità risarcitorie), arrivando alla soluzione paradossale ed incostituzionale per cui si puniva più gravemente la lesione aggravata dalla morte rispetto alla c.d. morte immediata e diretta, la Cassazione afferma che il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura. Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.
Riflessioni brevi a caldo
Le Sezioni Unite indicano la strada da seguire, in materia di danni alla persona; vi è, invero, una certa apertura in favore della persona umana e dei sui aspetti dinamico-relazionali, ma si procede ad una nuova sistemazione: si è passati dal danno esistenziale, come categoria, all’ingiustizia costituzionalmente qualificata.
Non vi è, necessariamente, una deminutio di tutela, ma una visione prospettica diversa: non vi è più una categoria, ma una serie di danni relativi a lesioni di diritti inviolabili della persona umana, da verificare e leggere di volta in volta, attraverso una lettura combinata dell’art. 2059 c.c. con la Groundnorm.
Se, diversamente, fosse stata accolta la prospettiva che voleva confermata la categoria del danno esistenziale si sarebbe corso il rischio, secondo la Corte, di portare l’art. 2059 c.c., che è a carattere tipico, nell’atipicità caratterizzante l’art. 2043 c.c.; id est, il danno esistenziale non poteva essere riconosciuto perché non tipico, in contrasto con la lettera dello stesso art. 2059 c.c.
Poiché l’art. 2059 c.c. è tipico, allora, può essere collegato colo con norme (come quelle della Costituzione) e non con la categoria del danno esistenziale, che non presentava i caratteri della tipicità.
La tutela, poi, si è estesa a favore del creditore danneggiato dall’inadempimento, perché potrà fruire anche del risarcimento del danno non patrimoniale, attraverso l’esaltazione dell’art. 1174 [11] c.c. (relativo al c.d. interesse non patrimoniale), senza dover agire in via aquiliana cumulata con l’azione contrattuale, perché bisogna garantire almeno il rimedio risarcitorio nei casi di lesione di diritti inviolabili della persona umana (diversamente, vi sarebbe un vulnus all’art. 24 Cost.); interessante anche l’applicazione dell’art. 1223[12] c.c. al danno non patrimoniale, con la conseguenza che dovrà essere risarcito non solo la perdita, ma anche il mancato guadagno: nell’ipotesi di danno biologico, ad esempio, non si dovrà tenere presente solo la perdita di una parte del corpo, ma anche le mancate utilità derivanti da tale perdita (rinunce forzate a stare con i figli, giocare con loro, oppure stare con la moglie, guidare, ecc.), purchè individuate a livello costituzionale, accogliendo pure tesi estensive, per merito della clausola generale dell’art. 2 Cost.

venerdì 7 novembre 2008

RISARCIMENTO DEL DANNO - DANNI FUTURI - POSTUMI PERMANENTI CONSEGUENTI A SINISTRO STRADALE - MINORE NON SVOLGENTE ATTIVITA' LAVORATIVA - LIQUIDAZIONE

SENTENZA N. 24331 DEL 30/09/2008

La Terza Sezione civile, pronunciandosi in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, ha consolidato e perfezionato un principio, già introdotto da Sez. III, n. 23298 del 14.12.2004, riguardante il tema della commisurazione del danno derivante al minore non svolgente alcuna attività lavorativa. Al riguardo ha affermato che quando detto minore subisca, in conseguenza di un sinistro stradale, lesioni personali con postumi permanenti, incidenti sulla capacità lavorativa futura, il relativo danno da risarcire - consistente nel minor guadagno che il minore percepirà rispetto a quello che avrebbe percepito se la sua capacità lavorativa non fosse stata menomata - può esser determinato ex art. 1226 c.c. in base al tipo di attività che presumibilmente il minore eserciterà, secondo criteri probabilistici, tenendo conto degli studi intrapresi e delle inclinazioni manifestate dal minore stesso, nonchè della posizione economico-sociale della famiglia. Ove il giudice di merito non ritenga di avvalersi di tale prova presuntiva, può ricorrere, in via equitativa, al criterio del triplo della pensione sociale. La scelta tra l'una o l'altro, di merito, è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivata. Nella stessa pronuncia trovasi anche affermato, conformemente a rv. 600386, che l'assicuratore, a seguito della richiesta del danneggiato formulata ex art. 22 della legge n. 990 del 1969, è direttamente obbligato ad adempiere nei confronti del danneggiato medesimo il debito d'indennizzo derivante dal contratto di assicurazione e che, una volta scaduto il termine di sessanta giorni da detta norma previsto, egli è in mora verso il danneggiato, qualora sia stato posto nella condizione di determinarsi in ordine all' "an" ed al "quantum" della responsabilità dell’assicurato. In tal caso l'obbligazione verso il danneggiato dell'assicuratore può superare i limiti del massimale per colpevole ritardo (per "mala gestio" cosiddetta impropria) a titolo di responsabilità per l'inadempimento di un'obbligazione pecuniaria e, quindi, senza necessità di prova del danno, quanto agli interessi maturati sul massimale per il tempo della mora ed al saggio degli interessi legali, ed oltre questo livello in presenza di allegazione e prova (anche tramite presunzioni) di un danno maggiore.

PROCESSO CIVILE –INCAPACITA' A TESTIMONIARE

SENTENZA N. 10744 DEL 24/04/2008

Il coniuge in comunione legale dei beni è incapace a testimoniare nelle cause aventi ad oggetto la domanda di pagamento per una prestazione d’opera non imprenditoriale, i cui proventi ricadono immediatamente in comunione (sentenza n. 10398), mentre non è incapace a testimoniare nelle cause aventi ad oggetto il pagamento di una prestazione di carattere imprenditoriale, perché i crediti derivanti dall’esercizio dell’impresa diventano comuni solo al momento dello scioglimento della comunione (sentenza n. 10744).

martedì 4 novembre 2008


Circolazione stradale

Trasporto contra legem su ciclomotore – Inoperatività della garanzia assicurativa

Inoperatività della garanzia assicurativa in caso di trasporto contra legem su ciclomotore non omologato per il trasporto di soggetti diversi dal conducente.

Si riportano di seguito due sentenze rese, rispettivamente, dalla Corte di Appello di Milano e dal Tribunale di Catania, in cui sono state accolte le eccezioni di inoperatività della garanzia sollevate dalle compagnie di assicurazioni convenute in giudizio.


Corte di Appello di Milano, sentenza n°1615/08.

La Corte nell’accogliere la doglianza della Compagnia di assicurazione appelante, coglie l’occasione per precisare che “la polizza stipulata dal proprietario del ciclomotore con la X Ass.ni s.p.a. non prevede copertura per il rischio di danni ai terzi trasportati ed è del tutto pacifico che per detto ciclomotore vigesse il divieto di trasporto di persone oltre al conducente. Ne deriva che non solo il rischio dei danni a terzi trasportati non risulta contrattualmente previsto, ma l’esistenza di un divieto direttamente posto dalla legge in ordine al trasporto di terzi su ciclomotori come quello in esame impedisce di ritenere che i danni riportati da soggetti che, in violazione di tale divieto, abbiano scientemente scelto di essere trasportati sul mezzo, possano essere ricompresi tra quelli risarcibili in forza della assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile. Detta assicurazione nel caso di ciclomotori non omologati per il trasporto di persone, sicuramente valida verso i terzi utenti della strada, incolpevolmente danneggiati dalla circolazione del mezzo, non si estende, a giudizio di questa Corte, ai terzi danneggiati trasportati sul ciclomotore che, accettando di salire sul mezzo in questione, abbiano posto in essere un comportamento contra legem. Non si vede, infatti, come si possa ritenere che il legislatore che all’art. 170 del D.Lgs. n. 285/92 ha ribadito il divieto per i ciclomotori di trasporto di terzi abbia, poi, nel prevedere all’art. 193 della medesima disposizione di legge l’obbligatorietà dell’assicurazione per la r.c.a. per i ciclomotori, inteso estendere la copertura di detta assicurazione anche ai danni dei trasportati sui ciclomotori dopo aver categoricamente vietato detto trasporto”. Ed ancora, prosegue la Corte “la mancanza di una previsione contrattuale o di legge di copertura del rischio per i danni ai trasportati su ciclomotore non omologato al trasporto di persone esclude di ritenere l’operatività dell’art. 18, 2° co. L. n. 990/69 che ovviamente presuppone l’esistenza della previsione (contrattuale o legale) di copertura del rischio trasportati, in questa sede esclusa”.

Tribunale di Catania, sez. V, sentenza del 25 giugno 2008, n°. 2911.

Pronunciandosi in senso analogo alla sentenza della Corte di Appello di Milano sopra riportata, il Tribunale di Catania, nel riformare la sentenza del Giudice di Pace (n. 1709/2005), afferma che, non essendo stata data prova alcuna che il contratto di assicurazione stipulato con la Compagnia di assicurazione prevedesse una copertura anche per i danni causati ad un eventuale terzo, illecitamente trasportato sul ciclomotore, e non potendo ritenersi tale copertura compresa fra le ipotesi di assicurazione obbligatoria R.C.A. di cui alla L. n. 990/69, “per l’ovvia ragione che quell’obbligo assicurativo non può essere previsto per una ipotesi di trasporto vietata dalla legge”, non può in alcun modo ritenersi operativa la garanzia assicurativa.

lunedì 20 ottobre 2008

Sinistri con lesione: niente rito del lavoro avanti al giudice di pace

Cassazione civile , sez. III, ordinanza 07.08.2008 n° 21418

Il Giudice di Pace di Reggio Calabria, dovendo giudicare una controversia relativa ad un incidente stradale con lesioni ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 102/2006, dichiara la propria incompetenza ritenendo che tale norma avesse attribuito la competenza per gli incidenti stradali con lesioni al Tribunale. Il Tribunale di Reggio Calabria, ove la causa è stata riassunta, a propria volta riteneva erronea la decisione del Giudice di Pace e sollevava, quindi, regolamento di competenza avanti alla Corte di Cassazione.
Con l’ordinanza n. 21418/2008 la Suprema Corte di Cassazione prende finalmente posizione sul punto e stabilisce alcuni principio fondamentali.
Innanzitutto si precisa che l’art. 3, L. 102/2006 non è da ritenersi norma speciale nei confronti della norma generale di cui all’art. 7 c.p.c. e, quindi, il legislatore non ha voluto in alcun modo derogare ai principi di competenza stabiliti dal codice di procedura civile. L’art. 3 può, e deve, incidere solo sulle norme processuali ovvero solo sul rito da adottare nel procedimento e non, quindi, sulle varie competenze. Poiché la norma di cui all’art. 413 c.p.c. contiene una disciplina relativa alla competenza per materia e per territorio, in stretta relazione però con l’art. 409 c.p.c. e quindi alle controversie di lavoro, non può considerarsi (l’art. 413 c.p.c.) una norma di diritto processuale a cui allude l’art. 3. Pertanto, la Suprema Corte di cassazione ha ritenuto di stabilire il seguente principio di diritto: «Deve escludersi che la norma dell'art. 3 della L. n. 102 del 2006, nel prevedere che alle cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali, si applicano le norme processuali di cui al libro Il, titolo IV, capo I del codice di procedura civile, abbia attribuito al Tribunale la competenza su tali cause, così sottraendole alla previsione di competenza del giudice di pace per materia con limite di valore, di cui all'art. 7, secondo comma, c.p.c.».
Ma di fondamentale importanza, riteniamo, è quanto stabilisce nel prosieguo dell’ordinanza la Suprema Corte. Quest’ultima, infatti, ha ritenuto che: 1) il rito del lavoro non è compatibile con l’esercizio della giurisdizione da parte di un giudice onorario quale il Giudice di Pace; 2) l’intento del legislatore era quello di un rito più celere per tali tipologie di cause e assegnando assegnando uno strumento processuale sofisticato quale il rito del lavoro al Giudice di Pace si otterrebbe l’effetto contrario; 3) che l’applicazione del rito del lavoro avanti al Giudice di Pace comporta che nella pratica anche i danni a cose di minima entità debbano essere trattati con tale rito; 4) quando il legislatore detta una norma sul rito potenzialmente idonea ad essere applicata - come l'art. 3 di cui si discorre - anche al processo dinanzi al giudice di pace, perché la potenzialità sia effettiva e la norma possa essere interpretata nel senso d'essere applicabile anche dinanzi al giudice di pace, è necessario che essa disponga in tale senso "in modo espresso", cosa che il detto art. 3 non ha fatto in alcun modo, non contenendo alcun riferimento al processo dinanzi al Giudice di Pace. Alla luce di queste considerazioni, la Corte di Cassazione ha, quindi, stabilito quest’altro principio: «deve escludersi che l'intentio legis di cui è espressione l'art. 3 si sia voluta indirizzare nel senso di disporre l'applicabilità delle norme del c.d. rito del lavoro anche quando le cennate controversie debbano essere trattate dinanzi al giudice di pace, onde la norma in discorso si deve intendere riferita soltanto all'ipotesi di causa davanti al Tribunale ».
In sostanza, per concludere,la Corte di Cassazione ha stabilito che nei sinistri con lesioni, per cui sia competente per valore il Giudice di Pace, non si debba applicare il rito del lavoro ma il rito ordinario.

martedì 7 ottobre 2008

Circolazione auto, assicurazione, auto in sosta, necessità, sussistenza

Cassazione civile , sez. II, sentenza 02.09.2008 n° 22035

I veicoli, ancorché privi di parti essenziali per un’autonoma circolazione o fortemente danneggiati od usurati, non sono esclusi dall’obbligo assicurativo se non risulti la prova della loro assoluta inidoneità alla circolazione e la loro sostanziale riduzione allo stato di rottame, non rilevando in contrario neppure la circostanza che il proprietario abbia raggiunto accordi con terzi per provvedere all’asporto ed alla successiva demolizione.

lunedì 6 ottobre 2008

Concorrenza e risarcimento: sulla legittimazione ad agire del consumatore

La legittimazione ad agire ex art. 33 Legge n. 287/90 va riconosciuta non solo all’imprenditore ma anche al consumatore.
Tale azione, infatti, deve ritenersi esperibile da parte di tutti quei soggetti del mercato che abbiano interesse alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere.
Il consumatore, pertanto, quale acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, ha il diritto di agire per il risarcimento del danno qualora, di fronte ad un’intesa restrittiva, veda eluso il suo diritto di scelta tra più prodotti in concorrenza.
In sostanza, poiché la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce un danno da una contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione “a monte” tra gli operatori del settore, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori dell’intesa restrittiva, è legittimato ad esperire l’azione di accertamento della nullità dell’impresa e il risarcimento del danno di cui all’art. 33 Legge n. 287/90.
Nel caso di specie il consumatore aveva lamentato l’esistenza di un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza posta in essere da numerose compagnie di assicurazione, tra le quali l’impresa convenuta, tesa a far aumentare i costi delle polizze, procurando alle stesse un ingiusto profitto a danno dei contraenti.
La Corte d’appello di Napoli ha rigettato la domanda proposta poiché ha ritenuto non provato dall’attore l’effettivo pregiudizio patito per effetto dell’intesa anticoncorrenziale.
Nella fattispecie, infatti, l’Autorità Garante si era limitata a stigmatizzare il mero scambio di dati sensibili, ritenendolo potenzialmente idoneo ad alterare il gioco della concorrenza, ma non aveva altresì accertato che tra le compagnie assicuratrici vi fosse stato un accordo sulle tariffe da applicare, né che lo scambio d’informazioni avesse avuto concreti effetti sulla formazione dei premi assicurativi tale da determinare un ingiusto incremento degli stessi rispetto a quelli che sarebbero stati praticati in un mercato “non turbato”.
Il consumatore che promuove l’azione risarcitoria ex art. 33 della citata legge non può, infatti, esimersi dall’onere di provare di aver subito un effettivo pregiudizio in conseguenza dell’atto anticoncorrenziale e, pertanto, nel caso in esame, l’attore, per ottenere il risarcimento richiesto, avrebbe dovuto dimostrare di aver corrisposto alla compagnia convenuta un premio maggiore rispetto a quello dovuto a causa della partecipazione di quest’ultima all’intesa vietata.

mercoledì 1 ottobre 2008

Sulle clausole di polizza che delimitano il rischio assicurato

Cassazione civile , sez. III, sentenza 17.01.2008 n° 866
Le clausole di polizza, che delimitano il rischio assicurato, ove inserite in condizioni generali su modulo predisposto dall’assicuratore, sono soggette al criterio ermeneutico posto dall’art. 1370 cod. civ. e, pertanto, nel dubbio, devono essere intese in senso sfavorevole all’assicuratore medesimo”.
Sulla base di tale principio interpretativo la Suprema corte ha cassato la sentenza della Corte d’appello di Venezia che aveva respinto la richiesta di indennizzo proposta dall’assicurato, in quanto rientrante nell’esclusione di cui all’art. 4, comma 3, delle condizioni generali di assicurazione, che prevedeva la non indennizzabilità per qualsiasi cura, protesi dentaria e paradentopatie, indipendentemente dall’accertamento della causa generatrice dell’intervento.
L’assicurato aveva sostenuto, invece, che la cura, in quanto dovuta da infortunio e non da ragioni estetiche o dal normale invecchiamento dell’apparato dentario, fosse indennizzabile.
Il Supremo collegio ha ritenuto insufficiente la motivazione offerta dalla Corte d’Appello in quanto basata su un’interpretazione meramente testuale della volontà delle parti.
In particolare non è stata sufficientemente indagata la ratio dell’esclusione dell’indennizzabilità delle cure dentarie e dell’espressione “indipendentemente dalla causa che le rende necessarie”, soprattutto ove raffrontata con la parallela esclusione, prevista nei contratti di assicurazione, dell’indennizzabilità degli interventi di chirurgia plastica prevista solo nei casi in cui non siano resi necessari da un infortunio.
Il richiamo a tale ultima ipotesi di esclusione comporta, a parere della Suprema corte, una corretta valutazione anche dell’espressione “indipendentemente dalla causa che le rende necessarie”, che potrebbe limitare l’esclusione dell’indennizzabilità delle cure e protesi dentarie solo ove siano dipendenti da malattia.
In tali ipotesi di esclusione dell’indennità assicurativa, pertanto, deve essere valutato se il presumibile criterio di eliminazione di una sovraesposizione del rischio assicurato, dipendente dalla inclusione fra gli eventi indennizzabili di cure dentarie e di interventi di chirurgia plastica, che si caratterizzano per il loro costo economico, non tolleri in entrambi i casi una maggiore copertura assicurativa quando interventi di tal specie dipendano e siano resi necessari da un infortunio.

giovedì 28 agosto 2008

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